La lettera
Aprì la porta sulle scale
rassettandosi la camicia che era uscita di lato dai pantaloni, mentre si vestiva
in casa, così di corsa.
Scese i gradini velocemente, erano corti abbastanza e dell’altezza giusta per
poterci quasi correre in discesa. Aprì la porta di cristallo molato che separava
l’androne giallo dal mondo lì fuori. Confine tra il sé e il mondo, tra casa e
città coi suoi rumori.
Fu investito immediatamente da un’ondata di caldo appiccicoso e ingordo che non
risparmiò un angolo solo di pelle.
Corse con la mano alla tasca, nella sinistra le chiavi dell’auto, nella destra
quelle di casa. “Ma quanta roba tieni in quelle tasche, le sformi
definitivamente dopo un solo giorno che indossi i pantaloni!” lei era solita
lamentare, con quell’aria un po’ scolastica che assume qualsiasi donna quando
riprende su piccole cose un uomo con cui vive.
“Mica ho borsette e tracolle, solo le tasche..” e mentre lo diceva era
probabilmente anche già uscito, lasciando solo la coda della risposta abituale.
Sfilò dalla tasca destra il mazzo, cercando la chiave più piccola, e sbirciò con
l’animo in attesa nella cassetta col piccolo vetro trasparente.
Pubblicità, la si riconosce al volo non fosse altro che per i colori e il
formato ripiegato male da chi l’ha inserita, casella per casella quel mattino.
Lui aprì lo stesso.
Tra due depliant arcobaleno la lettera c’era.
Piccola busta colorata, scrittura un po’ troppo perfetta, quasi infantile. Solo
leggermente un po’ inclinata a smussarne i caratteri un po’ troppo tondi.
Con l’indice simulò un tagliacarte, lacerando malamente la busta. Poi sfilò un
foglio A4 da stampante, fitto di caratteri anch’essi tondi. Solo lievemente
inclinati in alto a destra.
Lei aveva fatto i compiti.
Che lui nel loro gioco le aveva assegnato.
“Brava bambina” disse a se stesso l’uomo reprimendo un sorriso compiaciuto.
Obbediente.
Brava.
Nel nuovo gioco lui le aveva ordinato un po’ di cose. Soprattutto a cominciare a
praticare l’obbedienza.
Non occorre un motivo che la giustifichi. L’obbedienza. E in quel gioco bastava
ordinare.
Sorridendo la rivide come l’aveva vista l’ultima volta, prima di prendere l’auto
e tornarsene a casa, alla sua vita quotidiana, senza di lei a volte anche per
un’intera settimana.
Affacciata a quella balconata a stecche di metallo bruno. Con quel sorriso
all’ombra del caschetto scuro dei capelli, che sembrava chiedergli di tornare
subito indietro.
La immaginò là a guardare il mattino anche quella mattina, da lei doveva anche
aver piovuto e i colori dovevano aver messo i migliori vestiti nuovi, e a
domandarsi se la testimonianza, della sua prima obbedienza a lui, gli fosse
arrivata.
In quella lettera e in quella foto. La foto inguainata e celata nel foglio
ripiegato in quattro e fitto di scrittura.
Un po’ scomoda alla balconata in quel mattino mentre lui aveva in mano foglio
busta e foto.
Aveva stretto troppo quel collare, era la prima volta che se lo metteva, e se ne
rendeva conto solo allora.
Quattro corde marroni attorcigliate a farne una, il fermaglio a starsene
prigioniero nella maglia, un po’ troppo in alto e quasi ora le tagliava
cingendolo troppo stretto il fiato. O era l’attesa a farlo? Lui l’aveva scelto
di quella foggia perché voleva fosse il più esplicito possibile ogni volta che
lei l’avesse avuto indosso. Non un sottile nastro di cuoio, o seta, non qualcosa
che potesse sembrare un vezzo o un monile.
Quattro corde un po’ ruvide che ricordassero alla pelle il loro amore.
Che sfregandola ribadissero l’obbedienza arrossandola lievemente e non
permettendo al collo un solo istante per dimenticare.
Un piccolo anello di ottone appeso alla corda, che penzolava verso il seno,
tenuto stretto a gonfiare e tendere la camicia, aperta in alto nei primi tre
bottoni, cornice a quella corda marrone.
Anello nato allo specifico scopo, dichiarato già nel suo esistere lì, fatto e
forgiato per ampliare il gioco. Quando lui avrebbe messo lì un’altra corda.
O un guinzaglio di qualsiasi altra fattura. Una catenella che le gelasse ad ogni
passo sulla pelle, se stava lunga, a dondolarle sotto la camicetta, nel solco
dei seni, fino all’ombelico.
In quella foto nella busta lei stava davvero bene.
Di una bellezza sconvolgente pensò, addolcendo gli occhi nel guardarla,
carezzando con l’indice la carta fotografica lucida e colorata, l’uomo. Rilesse
ancora una volta, questa volta con più calma a e saltando meno voracemente
avanti alla lettura, le parole che accompagnavano sul foglio A4 la foto.
Un piccolo moto di stizza.
Improvviso, quasi una contrazione delle guance solo. Represso al volo, come se
lei fosse lì e lui non volesse farle vedere come a sua volta si lasciava
prendere, ed era governato anche lui dal loro gioco.
Dell’obbedienza chiesta mancava solo un piccolo dettaglio.
Che lei aveva trascurato o che, presa dal collare che lui le aveva spedito, lei
aveva forse dimenticato. Uno solo.
Anche insignificante forse a pensarci meglio. Nemmeno degno in fondo di essere
citato.
Rimise la foto e la lettera nella busta.
Le infilò nella tasca della giacca che, per colpa del calore e della fornace
cittadina, stazionava ormai soltanto, ripiegata, sul suo braccio.
Controllò di aver preso il cellulare. Anche se non serviva controllare, l’aveva
preso prima di uscire confidando che una lettera ci fosse. Ma ora non serviva.
Non la chiamò.
Lei probabilmente attese perché così era l’accordo. Dicendosi che la lettera
senz’altro doveva essere arrivata e domandandosi perché nessun suono uscisse dal
suo Motorola ora.
All’arrivo del pegno lui l’avrebbe chiamata, era questo l’accordo che lui le
aveva proposto, e liberata per quel giorno dal collare che lei avrebbe rimesso
solo il lunedì successivo e solo per loro.
La lettera e la prova dell’obbedienza l’avrebbero insomma liberata.
Libera di avere il colletto aperto in mezzo a tutti, senza sguardi curiosi o
domande indiscrete. E imbarazzanti.
L’uomo arrivò all’auto, il piccolo suono ripetuto tre volte dell’antifurto, la
portiera a ruotare in silenzio sui cardini. Sorridendo nel sedersi.
Immaginando lei che si infila nervosa e in ansia due dita tra pelle e collare.
Che lo ruota. Per quel che lo può ruotare.
La corda sfrega il collo certamente in questo suo fare.
Lei che lo sente forte, e resta tesa, aspettando che lui chiami.
Lo sentirà addosso fino a lunedì. Stretto, inamovibile, a urlare, quasi
impossibile da nascondere e da celare.
Da giustificare a chiunque e anche a se stessa.
Rossa ombra di pelle, sotto, che segna di voglia e di attesa.
L’anello fattosi ormai caldo dal suo stesso calore.
Lo sentirà così.
Il suo amore. L’uomo sorride, tocca la tasca quasi a sincerarsi che la lettera
esista e sia lì ancora.
Poi accende l’auto, e va a lavorare.
(Dedicata. All'obbedienza)